Siamo immersi nella connettività, siamo connessi. Digitalmente però. Questo implica un paradosso: siamo soli. Il modo in cui la tecnologia media le relazioni umane porta a questo. Sherry Turkle, una psicologa americana, nel suo libro Alone Together, del 2011, criticava il modo in cui la tecnologia ridefinisce i rapporti tra persone, conducendo, appunto, a un senso di isolamento. Perchè? Fondamentalmente per una sempre più evidente incapacità a dialogare.

La parola “dialogo” deriva dal greco dialogos, che letteralmente significa “conversazione”. Il prefisso dia vuol dire “attraverso” o “tra”. Suggerisce il flusso di comunicazione tra persone che la pensano in maniera differente. Logos ha molteplici significati, tra cui “discorso”, “ragione” e “parola”. Pertanto, “dialogo” etimologicamente significa una conversazione in cui parole e idee fluiscono “attraverso” o “tra” i partecipanti. Questo evidenzia la natura interattiva e dinamica del dialogo, in cui gli individui si scambiano pensieri e prospettive.  

La connessione è un contatto, per giunta mediato tecnologicamente, non è uno scambio.

La conversazione faccia a faccia sincronizza l’attività cerebrale, attivando aree legate all’empatia e alla cognizione sociale e aumenta la secrezione di ossitocina. Storicamente, gli esseri umani si impegnavano in rituali dialogici per diverse ore al giorno.

Ricordiamoci che il nostro cervello è lo stesso da milioni di anni e funziona sempre nello stesso modo.

I fasulli scambi digitali non stimolano le ricompense neurochimiche associate a un profondo legame sociale, con il risultato di diventare sempre più soli, ontologicamente soli.

Sherry Turkle sostiene che la tecnologia agisce come un “arto fantasma” della connessione umana. In altre parole non siamo più capaci di dialogare.

Immaginiamo di essere costretti a stare a letto per un lungo periodo: perdiamo la capacità di camminare, perchè per la nostra cabina di regia il camminare è diventato un’attività superflua, inutile. Preferiamo un messaggio ad una telefonata, perchè abbiamo più tempo per formulare una risposta (ammesso che vogliamo rispondere). Fuggiamo dalla conversazione e ci rifugiamo nella nostra solitaria torre d’avorio con tante illusioni. Ci illudiamo di avere tanti amici, ma sono followers. Ci illudiamo di essere nel giusto perchè i nostri post hanno tanti like. Mimesi algoritmica.

Questo non fa altro che incoraggiare un comportamento “da palcoscenico”.

Un esempio lampante è dato dalla narrativa, usata da Trump in questi giorni, nei confronti dell’Ucraina. Il rifiuto di Trump nei confronti di Zelensky—”Avresti potuto negoziare un accordo”—esemplifica la sostituzione del dialogo con ultimatum, slogan. Connessioni piuttosto che conversazioni. Inquadrando la resistenza dell’Ucraina come irrazionale, la retorica di Trump attiva una funzione fatica. Facendo un’analisi semiotica peirciana si evidenzia ulteriormente questa dinamica: il segno (negoziati di pace) viene privato del suo oggetto (risoluzione equa), diventando un rituale vuoto che legittima l’aggressione russa. L’interpretante—la percezione globale dell’abbandono da parte degli Stati Uniti—rafforza l’isolamento geopolitico dell’Ucraina.

La solitudine che Turkle diagnostica e l’estraniamento geopolitico che Trump costruisce sono semioticamente omologhi: entrambi derivano dal collasso del significato intersoggettivo in significanti vuoti.

Ma con una differenza fondamentale: mentre la maggior parte delle persone subisce passivamente questa situazione, con l’aggravante di pensare di essere libera di agire, ci sono invece dei soggetti che questa situazione, questa semiosfera, la utilizzano come uno strumento molto potente. Freedom is never free.